Articoli dello Studio Alfieri

Terapia con Adolescenti e Genitori nelle crisi adolescenziali

Questo lavoro si propone di mostrare l’utilità di un intervento tempestivo nelle crisi adolescenziali e di sottolineare (attraverso la discussione di due casi) sia la fertilità clinica del concetto di breakdown, che l’utilità di un “lavoro combinato” con i genitori, come supporto e complemento all’intervento terapeutico con l’adolescente.

Alcune preliminari notazioni ci sembrano utili ad introdurre l’argomento.

Gli adolescenti e i loro genitori sono entrambi coinvolti nella seconda fase del processo di separazione-individuazione che caratterizza la crisi adolescenziale. Il bambino di un tempo giunge allo sviluppo di una identità personale attraverso un lungo percorso connotato da specifici processi di separazione-individuazione (Senise, 1989, 1990), che lo portano a realizzare i compiti evolutivi (Erikson, 1982) dell’adolescenza, tra cui il distacco graduale dai genitori, il progressivo raggiungimento dell’autonomia e l’integrazione dell’immagine prepuberale di sé con le rappresentazioni del suo “nuovo” corpo sessuato, con tutto il corredo di pensieri, sentimenti, desideri, paure e azioni che esso comporta (Laufer, 1984).

Come l’adolescente deve separarsi dai genitori, dalle rappresentazioni di sé legate ai rapporti infantili, e dai valori e obiettivi ad essi collegati, così i genitori devono a loro volta emanciparsi dai figli, aiutandoli ad assumere gradualmente in proprio quelle funzioni fisiologicamente detenute fino ad allora in via vicaria per loro (Pandolfi, 1990). Gli anni dell’adolescenza, “quei pochi anni in cui non si può fare altro che aspettare”, secondo la felice definizione di Winnicott (1961) sono fonte di specifiche tensioni psicologiche sia per i ragazzi – che, non sapendo ancora chi sono né cosa diventeranno, possono sentirsi inconsistenti e nutrire forti angosce sulla propria identità personale e sessuale – che per i genitori, che devono sopportare le contraddizioni, le tensioni e le incertezze dei loro figli, astenendosi dal proporre loro soluzioni premature che essi non potrebbero non sentire “false”, senza abdicare alla fondamentale funzione di fornire sostegno. Le trasformazioni adolescenziali, per la relativa discontinuità che le caratterizza, disorientano tanto l’adolescente, che può avere la sensazione di non riconoscersi, quanto i suoi genitori, ai cui occhi il comportamento del figlio può apparire pazzesco, per la compresenza e alternanza di differenti livelli evolutivi, che rendono loro difficile mantenere un’immagine integrata di lui. I genitori si trovano a dover decifrare messaggi ambigui, a cercare di dare un senso a comportamenti contraddittori senza adeguati strumenti di comprensione, specialmente nelle situazioni più difficili. Privati improvvisamente dell’apporto narcisistico che derivava dal conoscere e capire i propri figli e dall’essere per loro fonte privilegiata di sostegno e sicurezza, i genitori si trovano al centro di forti turbolenze affettive, di un via vai di proiezioni, desideri e aspettative contraddittorie (Negrini, 1999), che rendono loro difficile mantenere una rappresentazione attendibile del figlio e del rapporto con lui e scegliere una linea di comportamento coerente. Eppure fa parte del loro compito reperire un difficile equilibrio tra la necessità di proteggere i figli, ancora immaturi, e quella di consentire loro le nuove esperienze indispensabili alla crescita, armonizzando nella loro mente gli aspetti progressivi e affidabili con quelli ancora infantili. A ciò si aggiunge la dolorosa esperienza di veder soffrire i figli, senza essere in grado di aiutarli come un tempo, anche per la fisiologica relativa esclusione dalla loro vita (il gergo adolescenziale, con la sua parziale ricreazione ad ogni nuova generazione, sottolinea questo aspetto). Anche la prorompente sessualità degli adolescenti può risultare problematica per i genitori, costretti a fare improvvisamente i conti con la propria età e a confrontarsi nuovamente con le proprie problematiche edipiche. Alla ferita per la perdita di centralità che il ridimensionamento delle funzioni genitoriali comporta, si aggiunge il fatto che i genitori si ritrovano, a volte improvvisamente, “coniugi” e “persone”, riesposti a conflitti e difficoltà da cui l’esercizio delle funzioni genitoriali li aveva a lungo preservati. La contestazione adolescenziale può essere molto dura da sopportare per adulti che abbiano un senso di sé precario e una autostima fragile: essi rischiano di sentirla come la prova del proprio fallimento, e perdere la speranza di avere fatto un buon restauro dei genitori interni. Se l’investimento sul figlio è sbilanciato sul versante narcisistico, il genitore può vivere il suo fisiologico bisogno di sfida come un attacco personale e rispondere colpo su colpo, diventando ostile e vendicativo. Nel “sopportare” l’adolescenza dei figli sono importanti da una parte, la buona qualità del rapporto coniugale e, più in generale, la ricchezza della vita relazionale e affettiva dei genitori, dall’altra il rapporto che essi intrattengono con la propria adolescenza e il livello di integrazione della dimensione adolescenziale nella vita attuale: se molti elementi della propria adolescenza sono stati rimossi, se essa appare lontana nel tempo come una informe nebulosa, quella dei figli non potrà non mettere a dura prova.

Per quanto concerne l’intervento diagnostico-terapeutico in adolescenza, sussistono importanti discordanze nella differenziazione tra situazioni normali e patologiche tra coloro che, aderendo alla concezione di A. Freud (1966), secondo cui l’adolescenza costituisce di per sé un disturbo evolutivo, ritengono inevitabile nell’adolescenza la comparsa di serie alterazioni comportamentali e tendono quindi ad assumere una posizione di attesa, e quelli che pensano che la maggioranza degli adolescenti padroneggi con limitato disagio i nuovi compiti psicosociali. Per questi ultimi è fondamentale differenziare le situazioni patologiche dalle crisi transitorie. Tra questi, i Laufer (1984) distinguono le crisi adolescenziali normali (in cui i disturbi che gli adolescenti manifestano non comportano un blocco del loro sviluppo né un distacco dalla realtà: la loro angoscia, transitoria, si ripropone con il riproporsi del desiderio di gratificazione, ma viene poi sostanzialmente superata) dai veri e propri breakdown1 (in cui sopravviene con la pubertà un’interruzione o un blocco dello sviluppo: gli adolescenti ignorano i propri genitali e, sentendosi diversi da ciò che ci si aspettava che diventassero, rifiutano inconsciamente il proprio corpo sessuato e le richieste che da esso provengono).

Ci riconosciamo sostanzialmente nella posizione di coloro che ritengono che un tempestivo intervento diagnostico e terapeutico rappresenti un’occasione da non perdere per soccorrere adolescenti “vulnerabili”2 nel momento della crisi, in modo da ridurre la possibilità che i fallimenti del periodo adolescenziale potenzino gli ostacoli già esistenti e per mettere questi adolescenti nella condizione di utilizzare meglio possibile le esperienze maturative, rimandando eventualmente ad un periodo successivo della vita la possibilità di un lavoro più approfondito.

È molto importante predisporre un setting che, tenendo conto delle specificità di questa età, faciliti il contatto con l’adolescente e la sua possibilità di fidarsi; è fondamentale che l’analista sia capace di identificarsi con un individuo in rapida evoluzione, muovendosi rapidamente, spesso nel corso della stessa seduta, tra i vari livelli in gioco, seguendo sia le comunicazioni dell’adolescente che le proprie risonanze emotive e il gioco delle proprie associazioni. Il particolare rilievo che hanno, a questa età, gli elementi esperienziali accentuano l’importanza della interazione reale con il terapeuta e gli elementi di novità connessi all’incontro terapeutico (Senise, 1989; De Vito, 1989).

Per quanto concerne il momento specificamente diagnostico, ci pare sia clinicamente fertile il concetto di breakdown, coniato per indicare una patologia mobile in continua trasformazione e con diverse possibilità evolutive, che comprende quadri patologici non ben delimitati, il cui senso e la cui evoluzione potranno essere definite solo nel corso della crescita (Novelletto,1986; Nicolò Corigliano, 1997). Il breakdown è trasversale rispetto alla valutazione psicopatologica, nel senso che si può verificare, con variazioni nella gravità, nelle strutture nevrotiche così come in quelle borderline e psicotiche; esprime l’effetto delle reazioni difensive ad un problema di sviluppo, che spesso costituisce la riedizione di precedenti intoppi, evidenziabili solo ricostruendo pazientemente con i genitori l’andamento dello sviluppo del figlio. Porsi in quest’ottica ha importanti conseguenze sull’atteggiamento emotivo dell’analista: i minuziosi tentativi di descrizione di precise entità cliniche possono infatti aiutare il clinico a “prendere le distanze”, “obiettivando” il “quadro clinico”, quando la sua capacità di comprendere è offuscata dal tumulto delle passioni, ma risultano di scarso aiuto nell’entrare in contatto profondo con quell’adolescente che è “precipitato” nella crisi e con quella famiglia che ne risulta travolta. Esse possono anche limitare, più o meno consapevolmente, la libertà esplorativa ed emozionale dell’analista: se ha l’impressione di trovarsi di fronte al cosiddetto “esordio precoce di una schizofrenia”, quale sarà la sua posizione nei confronti dei genitori e del ragazzo, che lo interrogano sulle possibilità, tempi e modi di una “guarigione”? E quella nei confronti del proprio investimento emotivo e esplorativo del caso, che in cuor suo può sentire e temere destinato alla cronicizzazione e al cosiddetto insuccesso terapeutico?

Valutare la gravità del breakdown significa dunque uscire dalle comuni categorie nosografiche e porsi su un piano di valutazione individuale, caso per caso; in questa prospettiva, diventa difficile scindere il momento diagnostico da quello terapeutico e inevitabile porsi in un’ottica di “diagnosi prolungata” (Senise, 1983; Novelletto, 1986) che rispetti l’ambiguità che l’adolescente sente come necessaria e permetta una valutazione dei tempi di evoluzione della crisi. In queste lunghe consultazioni, il processo diagnostico si articola nel tempo e assume una specifica valenza terapeutica in quanto la conoscenza di sé e l’individuazione delle proprie problematiche costituiscono un importante fattore di integrazione e di crescita. È importante prestare attenzione anche al modo in cui l’adolescente esce dalla crisi, senza limitarsi a valutare la riduzione della sintomatologia o del grado di ansia, cercando di cogliere anche i tentativi di ripristinare la coesione e continuità del sé attraverso rappresentazioni del sé o degli oggetti improntate a rinuncia, ripiegamento, restrizione delle aspettative affettivo-istintuali: si tratta in questi casi di una soluzione deficitaria della crisi, che comporta patologia della sessualità, eccessiva vulnerabilità ai distacchi, e conseguenti difficoltà di adattamento sociale (Novelletto, 1986). Riteniamo comunque che in molti casi possano risultare opportuni interventi limitati, mirati a rimuovere gli ostacoli più importanti che si frappongono allo sviluppo normale, per restituire al più presto l’adolescente al suo mondo di relazioni, all’interno del quale egli possa compiere le indispensabili esperienze maturative. È infatti essenzialmente attraverso l’esperienza che, mentre va esplorando il mondo esterno, l’adolescente potrà con il tempo scoprire anche le sue nuove caratteristiche fisiche e affettive e mettere alla prova le sue attuali capacità, giungendo alla costituzione soggettiva della propria identità attraverso una rappresentazione di sé in tutte le aree possibili.

Il lavoro con i genitori ci sembra fondamentale nel trattamento delle difficoltà adolescenziali, in quanto, soprattutto nella prima adolescenza, gli oggetti interni sono ancora in via di costituzione e trasformazione e la loro permeabilità alle relazioni con i genitori reali è rilevante, in un equilibrio ancora fluido tra intrapsichico e interpersonale.

Ovviamente l’età costituisce un discrimine fondamentale: se infatti appare ovvio coinvolgere nel trattamento di un bambino i suoi genitori e cercarne la collaborazione e viene in genere spontaneo favorire i processi di separazione di un tardo adolescente o di un giovane adulto, cercando di impostare un trattamento fondato sulla esclusione dei genitori dalla privatezza del rapporto terapeutico, nulla è ovvio né scontato con un giovane adolescente, con cui la situazione è più complicata tanto nella proposta del trattamento quanto nella sua attuazione e la valutazione del grado di dipendenza reale dai genitori particolarmente cruciale.

Quando la famiglia non è in grado di svolgere il proprio compito3 di favorire i processi di individuazione dei figli e incoraggiarne l’autonomia, non è realistico aspettarsi risultati soddisfacenti dalla sola psicoterapia del giovane adolescente senza occuparsi anche del suo ambiente e delle eventuali interazioni patogenetiche. È tanto più difficile (e tanto più necessario) ottenere la collaborazione dei genitori quanto più patologiche sono le reazioni familiari. Il bisogno inconscio dei genitori di mantenere lo status quo nelle relazioni familiari può ostacolare la maturazione dell’adolescente fino a determinare un arresto nello sviluppo del figlio, costretto a non crescere per non mettere in crisi i genitori o a “fermarsi” in attesa che essi maturino (De Vito, 1989; Pozzi, 1992). A questa età, il lavoro con i genitori ha dunque ancora una valenza preventiva (oltre che riparativa); i genitori, sentendosi sostenuti e capiti, possono – tramite l’identificazione con il terapeuta – identificarsi a loro volta con il figlio ammorbidendo, nei casi più felici, rigidità e scotomi che impediscono loro di “vederlo” e capirlo; restituire un ragazzo ad un contesto reso più sensibile e più capace di identificarsi con i suoi problemi e bisogni ne facilita la crescita successiva.

Non possiamo inoltre dimenticare che, quando decidiamo di occuparci di un giovane adolescente, non è con il nostro paziente che facciamo il contratto, bensì con i suoi genitori, e che essi hanno il potere reale di interrompere il trattamento in qualunque momento. Solo se sono aiutati a comprenderne lo scopo e il senso e a sopportarne il peso, i genitori saranno motivati a sostenere il figlio negli inevitabili momenti di difficoltà (Mastella e Ruggiero, 1992). Occorre valutare insieme ad essi il costo (non solo economico) della psicoterapia, connesso al suo impatto emotivo sulla famiglia, alle frustrazioni che possono derivare ai genitori dalla lentezza dei risultati, da eventuali peggioramenti sintomatici nel corso della cura, dal fatto che il terapeuta non può risolvere i problemi pratici (come, per esempio, le difficoltà con gli insegnanti) che per i genitori sono invece spesso in primo piano; è importante elaborare con loro le aspettative sui possibili esiti dell’intervento, sempre proporzionali ai danni esistenti.

Da parecchi anni, ci siamo convinti dell’utilità di affidare i genitori dei minori in trattamento ad un collega che li sostenga e aiuti nel loro compito e si occupi del loro punto di vista, della loro sofferenza, delle loro comprensibili difficoltà nell’accettare l’intervento di terzi nelle problematiche dei loro figli (Mastella e Ruggiero, 1992). Riteniamo che non si tratti di fare la psicoterapia ai genitori in assenza di una specifica e motivata richiesta da parte loro; così facendo, li si lascerebbe soli con i loro problemi di genitori, che sono proprio quelli per cui hanno chiesto la consultazione. È viceversa opportuno, come sottolinea M. Balconi (1990), rivolgersi a quell’area della vita dei genitori specificamente coinvolta con il figlio, cercando di capire proprio le loro difficoltà di genitori, anche se consapevoli di attuare un intervento che incide su tutte le relazioni familiari (Pandolfi, 1998). Successivamente potrà accadere che la richiesta evolva e si modifichi, attraverso il riconoscimento da parte dei genitori dell’impatto delle loro difficoltà personali nelle problematiche familiari, di cui i sintomi del figlio costituiscono spesso l’esito più appariscente. Questo “passaggio dalla richiesta alla motivazione” (Catarci e Lucantoni, 1996), tuttavia, non sempre si verifica: nella nostra esperienza, il lavoro con i genitori può andare da un minimo (fornire informazioni corrette e favorirne la corretta comprensione) ad un massimo (riconoscimento della circolarità delle interazioni familiari, del coinvolgimento nella sofferenza dei figli; collegamento tra la propria storia di figli e il modo di essere genitori, attraverso una rivisitazione della propria infanzia e adolescenza in un lavoro personale che favorisca la crescita come persona oltre che come genitore).

Il lavoro con i genitori richiede la capacità di identificarsi contemporaneamente con il figlio di cui i genitori parlano e con i genitori che ne parlano (oltre che con il bambino e i genitori interni), attraverso un “movimento identificatorio bipolare” che consenta di comprendere e contenere contemporaneamente sia le difficoltà dei genitori che quella dei figli (Senise, 1990). Avere a che fare con genitori i cui comportamenti inadeguati o carenti suscitano reali sofferenze nei loro figli mette a dura prova la capacità del terapeuta di mantenere un atteggiamento empatico. È tuttavia indispensabile tentare di vedere anche nei genitori il bambino sofferente, un tempo alle prese con genitori manchevoli, non per dare la colpa ai nonni o per giustificare qualunque comportamento, ma per inquadrarlo in un’ottica più ampia che consenta di concepire le condotte inadeguate dei genitori come l’esito di un processo di crescita distorto o bloccato. I rapporti tra terapeuti e genitori possono diventare difficili per l’azione di sentimenti competitivi, frutto di un gioco di proiezioni reciproche, in cui vengono rivissuti e messi in scena irrisolti conflitti infantili e/o adolescenziali con i propri genitori, contro cui si erge il sé grandioso del figlio che cerca con loro una sorta di “resa dei conti”. Il lavoro con gli adolescenti e i loro genitori richiede quindi una grande attenzione non solo al nostro controtransfert ma anche al transfert che noi operiamo sui genitori che si rivolgono a noi (Mastella e Ruggiero, 1994).

Esperienze cliniche

Da più di dieci anni collaboriamo a quello che abbiamo chiamato “lavoro terapeutico combinato”, che ci ha portato ad occuparci di numerosi adolescenti e dei loro genitori. Fra questi, ne abbiamo scelti due, emblematici per la precocità dell’esordio e per l’evidente rischio di un’evoluzione patologica, scongiurata – a nostro parere – grazie ad un intervento tempestivo rivolto sia all’adolescente “in crisi” che al contesto familiare in cui tale crisi era maturata ed esplosa; poterci riferire al concetto teorico- clinico di breakdown ci ha consentito di mantenere un atteggiamento aperto, senza cercare di orientarci troppo presto attraverso una diagnosi che avrebbe condizionato, oltre che le modalità di intervento, anche le possibilità evolutive della crisi stessa.

Questi due casi hanno in comune la brevità dell’intervento individuale con l’adolescente, teso essenzialmente a ripristinare una possibilità di crescita in un contesto reso più idoneo e facilitante attraverso un lavoro con i genitori, che ha potuto viceversa protrarsi a lungo, tanto da consentire una evoluzione del clima familiare, illuminando gli intrecci tra dinamiche familiari e patologia individuale; in entrambe le situazioni, la durata del follow up è stata superiore ai cinque anni.

1. La musica che porta via

La famiglia C. – I signori C., due addetti al mondo della scuola, entrambi laureati, chiedono una consultazione urgente perché la figlia Federica, dodicenne, “sta male”, rifiuta di andare a scuola, nonostante i buoni risultati fin allora ottenuti e tende ad isolarsi Accennano anche al figlio ventiduenne, Luca, che ha interrotto gli studi universitari da tre anni e “non fa niente tutto il giorno”, fuorché suonare e ascoltare musica.

Come misura immediata, l’analista invita i genitori a rimanere alternativamente a casa con Federica, come se si trattasse di un Day-Hospital: viene in tal modo “dichiarato” lo stato di “crisi” e preso sul serio il bisogno regressivo di Federica. Dopo alcuni colloqui con i genitori, l’analista propone una consultazione per Federica e un “aiuto psicologico” per i genitori (da attuarsi con un altro collega), che viene presentato come parte integrante del “prendersi cura” di Federica, paziente designata.

Gli elementi della storia della famiglia sono in parte emersi nella consultazione, in parte sono stati ricostruiti a posteriori. I signori C., che provengono dallo stesso ambiente, molto cattolico, conducono una vita isolata, praticamente priva di rapporti sociali, a parte quelli cui sono obbligati dal lavoro; coltivano una ideologia anticonsumistica, che sentono profondamente “etica”, cui trovano formativo sottoporre anche i figli: pur avendone i mezzi, non possiedono né una macchina né un televisore. Appare presto evidente che la signora C. è intimorita da tutte le “novità”, e sembra difendere ad oltranza un mondo incontaminato: il televisore è rifiutato soprattutto perché è considerato una fonte di messaggi perturbanti. Il marito le va dietro, un po’ d’accordo, un po’ intimorito da lei, incapace di porsi come reale interlocutore, e le delega la gestione familiare, in cambio della libertà di dedicarsi completamente al suo lavoro, molto idealizzato. Mantiene con la moglie un atteggiamento filiale e con i figli un comportamento iperprotettivo che ne mortifica le reali capacità, soprattutto quelle di Luca, che va acquisendo crescenti competenze in settori estranei alla cultura del padre (automobili, stereo, computer); questo provoca nel signor C. una irritazione costituita da un misto di invidia per le conoscenze di Luca, di paura per le “novità”, che potrebbero trasformare in modo poco controllabile l’atmosfera e i ritmi della vita familiare, e di angoscia di separazione da un figlio di cui vorrebbe inconsapevolmente ritardare la crescita.

Lo stile di vita familiare è stato messo in crisi qualche anno prima da Luca che, allora adolescente, aveva cominciato a fare richieste tipiche della sua età (i jeans, le scarpe da ginnastica, la cassa per la musica), cui i genitori avevano opposto un ostinato rifiuto, considerandole “conformistiche e infantili”. La sua passione per la chitarra elettrica è stata fieramente avversata da entrambi i genitori. Quando Luca si è presentato con una cassa per sentire la musica, gli scontri sono diventati particolarmente duri: la musica di Luca, di cui non sopportava di udire il suono, era vissuta dalla mamma come un pericoloso gorgo risucchiante che “porta via la testa”; la situazione è ulteriormente peggiorata quando Federica, diventando più grande, ha cominciato a manifestare un crescente interesse per il fratello, suscitando nella signora C., fragile e ipersensibile, gelosia e paura di essere “cancellata”. La invadeva allora l’idea che Federica potesse essere sopraffatta da Luca e costretta suo malgrado ad ascoltare la musica, che avrebbe “portato via” anche lei.

Le difficoltà di entrambi i genitori nel tollerare una “separatezza” dei figli, anche solo una diversità di interessi o di gusti, comprometteva la loro capacità di identificarsi con essi e impediva loro di cogliere l’aspetto evolutivo dei loro desideri di differenziazione e di sperimentazione di sé nel mondo, vissuti invece come attacchi personali.

Una prima “rottura” del clima simbiotico della famiglia era dunque avvenuta con l’adolescenza di Luca, che lo aveva improvvisamente reso strano-estraneo e pertanto minaccioso. La musica era diventata il rappresentante di tutto ciò che in Luca era nuovo, eccitante ed inquietante, potenzialmente sconvolgente. Anche la sua ragazza non era mai stata realmente accettata, per l’unica ragione che “non fa parte della nostra famiglia”. Successivamente, la maturazione sessuale di Federica, presaga di una incombente separazione, sembra aver provocato nella mamma (e nell’assetto familiare) una intensa crisi, manifestatasi attraverso la sintomatologia di Federica, esplosa due mesi dopo la comparsa delle prime mestruazioni. Hanno giocato un ruolo importante, in questo contesto, l’assenza di una funzione paterna separante e la mancanza, all’interno della coppia, di una “coniugalità” funzionante.

La terapia di Federica – L’approccio con Federica che, pur dicendo che stava malissimo, rifiutava di andare da qualsiasi medico, è stato singolare: l’analista aveva suggerito alla madre, molto angosciata, di proporre a Federica di scrivergli una lettera e recapitargliela insieme4. Quando l’analista la invita a salire e portargli personalmente la lettera, Federica, sorpresa, accetta di parlare qualche minuto con lui per raccontargli i suoi mali; aderisce poi alla proposta di incontri dapprima molto frequenti (in aggiunta a blande dosi di ansiolitici ed antidepressivi), poi a cadenza bisettimanale. Federica è andata regolarmente alle sedute, salvo che in rare occasioni, in cui l’analista l’ha comunque raggiunta per telefono. Si è rivelata una ragazza estremamente sensibile, attenta, capace di profonde intuizioni e di rara introspezione. Spesso, piuttosto che affrontare la realtà, si rifugiava nella lettura di romanzi di ogni genere, quando non ne costruiva lei. Molto attaccata al padre, cui si appoggiava per le sue uscite, si sentiva spesso incompresa dalla mamma, che non sapeva fornirle, secondo lei, l’aiuto adatto.

Il dialogo con l’analista scorreva fluido, a molteplici livelli, passando dal racconto di un sogno, ai significati profondi delle sue fantasie, alla discussione della sua percezione di sé, dei suoi genitori, dei suoi insegnanti e dei suoi compagni, alla ricerca di qualche ulteriore mezzo espressivo, quale la fotografia.

Federica ha riacquistato progressivamente fiducia in sé, ripreso rapidamente a frequentare la scuola, e i suoi sonni sono diventati più tranquilli, ha potuto affrontare qualche esperienza di maggiore autonomia, trovando la “forza” di entrare in una cerchia di amici, e ha completato felicemente l’anno scolastico. La psicoterapia, conclusasi dopo circa 9 mesi, è stata un vero e proprio viaggio, in avanti ed indietro nel tempo, ai confini tra la fantasia e la realtà, tra magia e poesia, in cui sono via via affiorate le tematiche relative all’individuazione ed alla separazione, nonché quelle edipiche e più tipicamente adolescenziali, con la consapevolezza reciproca di assistere commossi e stupiti ad una grande trasformazione in atto.

Il lavoro con i signori C. – I signori C. si rivolgono all’analista come dei bimbi ad un genitore onnisciente, da cui vogliono “indicazioni precise”; sembrano da una parte non avere alcuna fiducia nelle loro possibilità di comprendere le esigenze dei figli e di trovare soluzioni personali ai problemi, dall’altra non volersi mettere veramente in gioco, preferendo essere “esecutori” meticolosi, in modo da potersi “chiamare fuori” in qualunque momento, eludendo sia l’elaborazione di penosi conflitti interni che la responsabilità delle scelte attuate. Accogliere temporaneamente il loro bisogno di delega delle funzioni genitoriali ha favorito una certa decompressione della tensione familiare.

Per molto tempo gli incontri si sono svolti sull’urgenza, senza che fosse possibile creare uno spazio in cui riflettere insieme, presi dalla concretezza delle questioni che emergevano di volta in volta. È stato necessario procedere cautamente, svolgendo a lungo una funzione di io ausiliario per sostenere il precario senso di sé dei genitori; si è rivelato utile aiutarli a comprendere i figli, dando voce ai bisogni di questi ultimi – per come l’analista riusciva ad immaginarseli – e cercando contemporaneamente di capire ed esprimere anche le reazioni che i bisogni dei figli suscitavano nei genitori (Senise, 1990). Un contatto profondo con i bisogni e i desideri dei figli era sentito dai signori C. potenzialmente destrutturante in quanto rischiava di mettere in crisi strategie difensive consolidate e riaccendere angosce legate ai conflitti tra le esigenze di un super-io rigido e ostile al piacere e i desideri di crescita e di integrazione di moti pulsionali, riacutizzati dall’impatto con le trasformazioni puberali prima di Luca e poi di Federica. Eventuali prescrizioni sono state date soprattutto per indicare altri possibili modi di accostarsi ai problemi, e saggiare la capacità dei genitori di assumere punti di vista alternativi.

L’atteggiamento verso l’analista si è gradatamente evoluto da una posizione di accentuata passività ad una collaborazione più attiva, sottolineata da una ricerca più fiduciosa di soluzioni personali; tale trasformazione è stata favorita dalla graduale presa di coscienza delle loro caratteristiche personali, facilitata dalla rivisitazione di alcuni momenti salienti della loro vita di figli. Il riaffiorare di ricordi spontanei pertinenti con le situazioni man mano discusse è stato uno dei segni di questa crescita. Il loro sincero desiderio di ricevere aiuto, finora ostacolato (soprattutto nella signora C.) oltre che dalla paura, da un profondo senso di indegnità, ha così potuto essere maggiormente tollerato (e soddisfatto). Nel tempo, si è costituito uno spazio crescente per provare curiosità verso i sentimenti e i bisogni dei loro figli (e propri), cui i signori C. hanno potuto maggiormente corrispondere grazie ad una diminuzione dei loro sentimenti di colpa. La casa si è progressivamente animata di nuovi oggetti, tra cui l’automobile, la televisione e, tempo dopo, perfino un computer per Luca …

È stato un lungo percorso, durato alcuni anni, snodatosi attraverso un alternarsi di momenti progressivi (in cui era possibile dare un nome ai bisogni e alle paure dei vari personaggi interni ed esterni e seguirne le complesse interazioni con una certa leggerezza, come quando si gioca) e regressivi (in cui l’ansia e il sentimento di persecuzione si riaccendevano e si riacutizzavano antiche “ossessioni”)5.

Mentre i sintomi di Federica si sono risolti abbastanza rapidamente, ci è voluto più tempo perché Luca trovasse una sua strada; a parte un unico colloquio con l’analista che seguiva i genitori, richiesto da lui stesso, l’aiuto che ha ricevuto è stato indiretto: una ricaduta positiva della maggiore consapevolezza e fiducia in sé acquisita dai genitori.

Al sopraggiungere delle nozze d’argento, i signori C. hanno trovato il desiderio e il coraggio di festeggiare per la prima volta il loro anniversario di matrimonio, rivelando così ai loro figli di essersi sposati “incinti”… Nell’occasione, si sono concessi la loro prima vacanza da soli, riconoscendosi il diritto di essere – oltre che dei genitori – anche dei coniugi che possono condividere qualche spazio privato e altrettanto possono quindi consentire ai propri figli.

Aggiornamento. A distanza di 5 anni, sappiamo che Federica frequenta con successo l’ultimo anno delle Superiori e che ha un buon gruppo di amici con cui condivide diversi interessi. Ha in animo di fare l’Università in un’altra città, per prendere maggiormente le distanze dai genitori, che condividono tale progetto. Quanto a Luca, lavora da tre anni nel settore informatico e sopporta bene il pendolarismo; la relazione con la sua ragazza sembra ormai stabilizzata. Viene un po’ più sopportato dalla madre e supportato (emotivamente) dal padre. Quest’ultimo ha recentemente colto un’importante occasione di cambiamento di lavoro, che l’ha un po’ distanziato emotivamente dalla moglie, della cui fragilità sembra ora più consapevole e più sanamente preoccupato. La madre ha chiesto ripetute consultazioni per sé, in concomitanza con l’acuirsi dei momenti di frizione col mondo esterno, in cui lo viveva di nuovo come intrusivo e persecutorio, tanto che in diverse occasioni è stato necessario sostenerla con un aiuto farmacologico, che ha potuto accettare, superando la paura di “sembrare matta”, solo grazie al lungo lavoro svolto e alla fiducia costruita nel tempo.

Il risultato più importante del lavoro ci sembra la ricostituzione di una coppia meno fusa e confusa tra i genitori, ora maggiormente capaci di vivere anche il registro della coniugalità, il che consente loro di “lasciar andare” maggiormente i figli, lo sviluppo di una maggiore curiosità reciproca e verso i figli (Shapiro, 1984) e un rapporto più consapevole con le proprie aree “fragili”.

Considerazioni. Con Federica il “primo contatto” non sarebbe stato possibile senza il lavoro preliminare svolto nella consultazione con i suoi genitori. In lei prevalevano la paura e il turmoil, non c’erano ancora troppa rabbia, delusione, disperazione. La “confusione” mentale da eccesso di meccanismi proiettivi della coppia genitoriale era ancora limitata; la possibilità di negoziare con i propri impulsi e desideri, seppure ridotta, era ancora presente e si è potuta sviluppare.

Appaiono chiari gli aspetti intrapsichici di questa crisi puberale- adolescenziale, presentatasi sotto l’espressione di una fobia scolare, con intense angosce di separazione; altrettanto evidente risulta l’incidenza di elementi del retroterra relazionale, soprattutto la tendenza all’idealizzazione e all’isolamento dei genitori, l’entità del loro uso di meccanismi di difesa primitivi, oltre che la difficoltà di integrazione delle componenti sessuali. La madre aveva vissuto le gravidanze in uno stato prevalente di angoscia “isolata”, terrorizzata dai cambiamenti all’interno del suo corpo, vissuti come potenzialmente catastrofici, spesso dominata dal terrore di generare un mostro, angoscia che non aveva potuto condividere né con il marito né con alcun altro familiare (ne ha potuto parlare, per la prima volta, solo nel corso del lavoro terapeutico). Anziché funzionare con adeguate capacità di réverie e contenimento, la madre sembra aver proiettato nei figli proprie angosce primarie, relative al terzo, all’estraneo e averli utilizzati come oggetto controfobico e come conferma di una propria identità precaria, cercando di controllarne i movimenti interni ed esterni. Non avendoli sentiti sufficientemente propri, come parti di sé prima, sembra aver accentuato poi il tentativo di “rientrarvi dentro”: un tentativo di (ri)appropriazione, alternato all’espulsione e all’allontanamento di ciò che in loro avvertiva come estraneo e minaccioso. Questo suo essere un oggetto ora instabile, insicuro e quindi minaccioso, ora invece incredibilmente tenero, caldo fino a diventare irresistibilmente risucchiante, ha accentuato le difficoltà di separarsi di Federica e di Luca, sia nel primo che nel secondo processo di separazione- individuazione.

La funzione paterna, per le reali caratteristiche del padre, sembra essere stata più vicariante elementi materni arcaici, che normativa, separante, autorevole. Nei figli, la coppia genitoriale interna si è costituita come poco sessualizzata, se non addirittura “sessuofobica”, e ciò ha complicato l’integrazione psichica del corpo sessuato adolescenziale e delle relative fantasie masturbatorie.

Gli aspetti poetici e musicali presenti in entrambi i figli, l’incredibile nostalgia fino alla malinconia (malinconoia) di Federica per la musicalità del passato rinvia ad aspetti di deprivazione (grande oblatività alternata a bruschi tentativi di espulsione). Le difficoltà del sonno di entrambi i figli in periodi diversi della loro vita, la necessità di Luca di mantenere attorno a sé una cortina sonora “assordante” per la madre (amante in modo ambivalente del silenzio, perché troppo “assordata” dalle proprie voci interne e troppo “ossessionata” dai rumori dei vicini) o di cercare un contatto con una realtà virtuale rinviano ad un’angoscia del vuoto, del silenzio ed al bisogno di esercitare un controllo illusorio sulla realtà immateriale.

La fobia scolare di Federica e l’arresto evolutivo di Luca hanno costretto i genitori a chiedere aiuto, prima per i figli, poi per sé come genitori, infine per se stessi come persone, in particolare la madre, anche se a livelli poco più che sintomatici. Ciò ha permesso una ripresa del processo evolutivo in entrambi i figli, anche se in modo più “coartato” nel primogenito, che non ha usufruito di un processo terapeutico personale, pur avendo tratto giovamento dal lavoro su se stesso compiuto dai suoi genitori e dai miglioramenti della sorella (con la ricaduta positiva che essi avevano sui suoi genitori). Riteniamo che senza gli interventi fatti, la situazione di stallo di Federica si sarebbe consolidata, rendendola prigioniera di se stessa, della sua casa, irretita in un gioco di proiezioni da cui avrebbe difficilmente potuto districarsi, impedendole di costruire quei fondamentali legami affettivi alternativi alla famiglia, la cui funzione è così strutturante per la crescita.

Quanto a Luca, si è “rimesso in moto” dopo tre anni di completa inattività, trascorsi prevalentemente chiuso nella sua mansarda, immerso in una avvolgente cortina musicale (che se da una parte lo isolava e proteggeva dall’invasione materna, dall’altra fungeva da provocatorio richiamo a lei), dopo che il lavoro terapeutico ha permesso alla madre un distanziamento sufficiente perché Luca potesse sentire attorno a sé uno spazio in cui cominciare a “pensare” i primi passi. Hanno contribuito a sbloccare la sua situazione la minore disponibilità della madre all’invischiamento simbiotico, grazie al sostegno separante di un terzo (dapprima la terapeuta e successivamente il marito, divenuto più consapevole delle difficoltà della moglie e della necessità di sostenere il figlio), l’alleggerimento delle proiezioni di oggetti interni persecutori sulla sua musica “demoniaca” e – anche grazie ad un certo miglioramento nell’immagine di sé dei genitori – lo sviluppo di una maggiore fiducia in lui e nella sua capacità di decisione; ciò ha permesso ai genitori di fargli una apertura di credito, ponendogli contemporaneamente dei limiti più precisi e calibrati di momento in momento, uscendo dalla logica totalitaria del “tutto o niente”.

2. Il filtro dell’immortalità

La famiglia M. – La consultazione è stata richiesta dai genitori di Giovanni, 14enne, molto preoccupati dal comportamento del figlio, che era giunto a rifiutare di mangiare e bere, temendo che qualcuno gli somministrasse di nascosto il filtro dell’immortalità. Ossessionato da queste ed altre idee, Giovanni non riesce più a studiare e, nell’ultimo compito in classe, consegna un foglio in cui si nota una sorta di disgregazione delle parole che diventano via via illeggibili.

Viene concordato un intervento immediato, farmacologico e psicoterapeutico individuale, ed un aiuto per i genitori. Soltanto a posteriori è possibile ricostruire la storia di Giovanni e della sua famiglia.

Terrorizzato dalle trasformazioni puberali, Giovanni ha vissuto le prime perdite seminali con sentimenti di crollo. Cerca sempre e solo la mamma per parlare, cioè per inondarla dei suoi terrori incontenibili, e tende ad evitare il padre. A sua volta, la mamma di Giovanni non è riuscita ad attuare una adeguata separazione dalla propria famiglia di origine, o meglio dalla componente femminile di essa (mamma e sorella). Dopo la separazione tra i suoi genitori, quando lei era piccolissima, ha visto il padre in maniera estremamente saltuaria, senza tuttavia sentirne la mancanza; è così cresciuta senza poter comprendere e valorizzare la funzione paterna: “per i bambini è la mamma che conta; gli uomini servono per lavorare”: coerentemente con la posizione di sua madre, che si era risposata quando lei aveva 12 anni, “affinché la figlia non avesse problemi economici”.

I signori M. si sono sposati molto giovani, già in attesa di un bambino, perduto poi al 6° mese. Giovanni è giunto 6 anni dopo, intensamente cercato, dopo una gravidanza a rischio che lo ha reso ancora più “prezioso” agli occhi dei genitori. Per anni, la signora M. ha tentato di anticipare tutti i bisogni del bambino, cui non tollerava di imporre la più piccola frustrazione, che temeva avrebbe suscitato risposte ostili per lei insopportabili. Ne era una schiava-padrona felice.

Il signor M., che ha lavorato per molti anni lontano da casa, manifesta – quando è presente – un comportamento ansioso e iperprotettivo nei confronti del figlio; afflitto da un’insonnia cronica e da intense preoccupazioni ipocondriache, non è in grado di svolgere adeguatamente una funzione paterna separante; in passato, ha gareggiato con la moglie nel soddisfare le richieste (vere o presunte) di Giovanni: la notte, al minimo vagito, facevano a chi arrivava prima, col risultato che in breve tempo è diventato insonne anche il bambino. Attualmente non riesce a farsi ascoltare dalla moglie, che contende alla invadente famiglia di lei, ponendosi però più che come un marito, come un bambino estromesso dal possesso della moglie- madre, che a sua volta pretende infantilmente di “essere presa com’è” dal marito.

Quando Giovanni aveva 9 anni, la signora M. è rimasta inaspettatamente incinta. La reazione del figlio alla sua gravidanza è stata così “terribile” che la signora M. ha pensato molto seriamente di abortire “per non far soffrire Giovanni”, attualmente ancora molto geloso della sorellina, per la cui nascita entrambi i genitori si sono sentiti molto in colpa.

Il lavoro terapeutico con i signori M. – Instaurare una alleanza con loro è stato difficile, anche perché i signori M. non si ascoltavano l’un l’altro né manifestavano alcuna curiosità per i rispettivi punti di vista né per quello dell’analista. Volevano entrambi “sfogarsi”: lui dichiarava di voler contare di più in famiglia e nell’educazione dei figli; lei non voleva assolutamente essere messa in discussione, né da lui né dall’analista. Non sembravano avere idea dei reali bisogni del figlio; erano molto spaventati dai suoi sintomi e sentivano di “non riconoscerlo”, come se si fosse improvvisamente rotto qualcosa, senza alcuna consapevolezza del fatto che (come già era accaduto per l’insonnia) Giovanni potesse aver assorbito le loro intense angosce di separazione, che trasformavano la sua normale crescita in un pericolo per entrambi i genitori.

L’analista sentiva che il rischio di essere espulso dalla signora M. era molto forte; per tutto il primo anno è infatti venuta malvolentieri alle sedute, manifestando un atteggiamento diffidente e competitivo, rafforzato dal fatto che il marito cercava invece di utilizzare l’analista come alleato contro lo strapotere della moglie in famiglia. L’analista è stato ovviamente molto attento a non farsi irretire nella conflittualità di coppia, limitandosi ad un ruolo di moderatore, di “semaforo” che facilitasse le reciproche comunicazioni, con discreti interventi, più che altro per differenziarsi dal magma familiare e segnalare la sua presenza.

A lungo, le sedute sono state una lotta serrata per la conquista della parola che, utilizzata dapprima come mezzo di evacuazione e poi come strumento di sopraffazione ed intimidazione, ha potuto infine assumere valenze comunicative quando, dopo un lungo lavoro, si è fatta strada una qualche attenzione al punto di vista dell’altro, sostenuta da una graduale identificazione con l’analista che li ascoltava entrambi, valorizzando la verità parziale contenuta nei loro differenti punti di vista, mostrando come i reciproci messaggi venivano distorti, evidenziando l’uso manipolatorio che spesso assumevano le loro comunicazioni; in questo, è stata fondamentale l’elaborazione delle reazioni emotive dell’analista, spesso intense e disturbanti.

Realizzato l’obiettivo minimale (che riuscissero ad ascoltarsi), è stato possibile cominciare ad esplorare l’effetto di modi alternativi di comunicare sia tra di loro che con i figli. Quando i signori M. hanno iniziato a sentire entrambi l’analista come un alleato delle loro funzioni genitoriali, è stato possibile fare qualche collegamento tra i figli che erano stati e il loro comportamento di genitori, focalizzando l’attenzione su alcuni aspetti della loro storia che “ritornavano” nel comportamento attuale con i figli. Gradatamente l’analista ha cercato di stimolare in loro la ricerca di possibili significati dei comportamenti di Giovanni, incoraggiando la loro curiosità e le loro fantasie sul senso delle sue idee, anche le più “incomprensibili”; si è così costituita una certa distanza, che ha permesso ai signori M. di capire e tollerare meglio il figlio.

Questo ha consentito al signor M. di rendersi conto di quanto avesse utilizzato il lavoro per sottrarsi alla conflittualità con la moglie, abdicando al ruolo paterno – cui negava nei fatti l’importanza che rivendicava a parole – e di rinunciare, alcuni anni dopo, ad una ambita promozione, che lo avrebbe però costretto a vivere molto lontano da casa; la moglie ha saputo valorizzare questa difficile scelta, rendendosi conto che solo una maggiore collaborazione e presenza di entrambi i genitori poteva consentire a Giovanni di affrontare qualche graduale esperienza di autonomia: sarà così che dopo la rinuncia del padre al trasferimento, Giovanni potrà tentare di seguire le proprie aspirazioni, iscrivendosi ad una facoltà fuori città e affrontando, sia pure fra mille angosce e difficoltà, la prima esperienza di distacco dai genitori, ora pronti a lasciarlo andare.

La terapia di Giovanni – Nel corso del primo colloquio, Giovanni, angosciato e sospettoso, parla in modo circospetto di presenze inquietanti, che agiscono su di lui a sua insaputa e che ritiene dotate di un’esistenza propria, da tenere, peraltro, segreta. Riferendosi alla sua ossessione principale, l’analista gli chiede se non sia spaventato dalla possibilità della morte degli altri, che diventerebbe causa della sua solitudine. G. si mostra sollevato, e può così iniziare il lavoro psicoterapico, associato a basse dosi di neurolettico.

Verranno utilizzati man mano TAT, esperienze di vita quotidiana, sogni, disegni, cercando, secondo una sua felice espressione, di “riunire le regioni di uno stato che si erano separate” e di liberare fantasie che sembrano collegabili agli aborti materni e, successivamente, all’invidia e gelosia per la sorella, minore di 9 anni. La possibilità di elaborare la nostalgia per il seno e l’ambivalenza e rivalità verso la figura paterna favorisce una rapida ripresa dello sviluppo, sia nelle relazioni familiari e sociali che nell’apprendimento scolastico. Dopo circa nove mesi, Giovanni sta decisamente meglio (si è sentito “la sua anima tornare dentro”) e chiede di diradare gli incontri, riservandosi la possibilità di venire “al bisogno”, cosa che fa effettivamente.

Dopo due anni di terapia, appare avviato il processo di difficile separazione dalla figura materna, ed emergono con più forza tematiche relative all’identità sessuale e all’integrazione di istanze superegoiche con istanze tenere, protettive.

Il lavoro con Giovanni è stato abbastanza fluido fin dalle prime battute, dopo che l’analista ha potuto organizzare un “campo” per i genitori da una parte e Giovanni dall’altra: un campo differenziato e differenziante, che restituisse ad ogni generazione uno spazio per esprimersi e per vivere lo “specifico” del proprio ciclo vitale. Questo assetto di lavoro ha creato una sorta di barriera-scudo protettiva rispetto alle invasioni materne nel mondo interno di Giovanni, e ne ha favorito l’esplorazione. Ha ridimensionato un’immagine di analista (genitore) ideale onnipotente, così come la terapia farmacologica ha ridotto, per via farmacologica e per via simbolica, la “forza” delle parole e delle idee (di quante parole e concetti l’aveva imbottito la madre e quanto rischiava l’analista di fare altrettanto!).

Aggiornamento. Nel corso degli anni Giovanni ha mantenuto con l’analista contatti “su richiesta”; poter contare sulla disponibilità dell’analista, che si rendeva reperibile “al bisogno”, senza spaventarlo con richieste eccessive, ha consentito a Giovanni di proseguire nella conoscenza di sé e nella ricerca di una identità personale. Molto legato ad alcuni compagni problematici, con cui si confronta specularmente, diventa sempre più consapevole del suo fascino sulle ragazze, che peraltro lo spaventano per la facilità e talora fatuità delle “storie” che continuamente intrecciano, e tende a inseguire nei sogni, nelle fantasie e talora nella realtà, storie impossibili, con ragazze “impegnate” con altri ragazzi, spesso suoi amici. Periodicamente riemergono idee e comportamenti ossessivi, paure che il contatto fisico (ed emotivo) porti al contagio, infettivo (ed emotivo), che lo costringono a compiere “buone azioni” riparative. Il timore di rappresaglia da parte di una figura materna interna malefica, che non permette la separazione e l’avvicinamento ad altre donne, è spesso incombente; emergono sempre più anche sentimenti e fantasie relative alla rivalità con la figura paterna, che sul piano di realtà stenta a lungo ad avvicinare. Dopo la maturità, Giovanni decide di seguire il suo talento grafico, iscrivendosi ad una scuola d’Arte in una metropoli. L’allontanamento da casa, vissuto come una sperimentazione di sé, un mettersi alla prova, esprime, per certi aspetti, anche un’assimilazione alla figura del padre, che ha trascorso buona parte della sua vita lavorativa lontano da casa.

Giovanni ha tollerato senza eccessive difficoltà l’esperienza di separazione dalla famiglia e di vita fuori casa. L’anno successivo, stabilizzata la situazione del figlio, il padre ha accettato la promozione e il trasferimento. Va tutte le settimane a trovare Giovanni, che ne apprezza la vicinanza.

Considerazioni. I signori M. apparivano una coppia genitoriale scarsamente differenziata, coinvolti più in una lotta per la supremazia che in un dialogo fecondo, basato sul sostegno reciproco. È stato fondamentale (ri)creare tra loro un’alleanza fondata sul riconoscimento della comune funzione genitoriale, e rinforzare la loro vacillante fiducia di poterla esercitare. Entrambi sono divenuti più consapevoli delle tensioni che l’adolescenza di Giovanni induceva in loro, come persone e come coppia, rimettendo in gioco i loro conflitti adolescenziali, insufficientemente elaborati: la signora M. ha realizzato quanto poco si fosse affrancata dal legame con la propria famiglia di origine e quanto profonda fosse la sua identificazione con una madre che negava la figura paterna, compiendo almeno in parte quel lavoro di lutto che non aveva fatto a tempo debito; separarsi parzialmente da questa madre interna, onnipotente e gratificante, ma risucchiante e incarcerante, le ha permesso di distanziarsi un po’ dal figlio, con cui aveva tentato di ricostruire la stessa simbiosi, compromettendone la differenziazione e la crescita, anche sul piano dell’identità sessuale; ciò le ha consentito di affrontare i problemi di Giovanni insieme al marito anziché insieme con la propria madre (interna oltre che esterna). Quanto al signor M., ha potuto capire quanto fosse profonda la sua ambivalenza per sua moglie, quanto essa assomigliasse alla di lui madre nei suoi aspetti escludenti e squalificanti, quanto ambivalenti fossero le sue rivendicazioni nei confronti della moglie, e quanto filiali nella loro modalità di espressione.

Attraverso il sintomo iniziale, il rifiuto acuto di cibo e bevande, Giovanni sembrava realizzare una inconscia messa in scena con cui manteneva una relazione con una madre non nutriente, che sul piano di realtà veniva costretta a preoccuparsi per il figlio come se fosse ancora piccolo e a smettere di usarlo come “grande” confidente. La madre si è così trovata a dover cercare altrove un cibo, un luogo (l’analista) che facesse crescere veramente il figlio anziché assurgerlo ad una atemporale mensa degli dei. L’impossibilità per G. di introiettare una madre che sapesse dosare presenze ed assenze, e aiutare a confrontarsi con l’estraneo e con il padre, sembra aver favorito in G. l’iperinvestimento delle fantasie, utilizzate come “presenze” che negano i vuoti. La riduzione della permeabilità alle incursioni materne, l’aumento dello spazio interno, hanno permesso di utilizzare in modo più creativo le sue capacità espressive, in particolare il disegno.

Caricato delle angosce materne (comprese quelle relative ai suoi aborti, di cui lei gli parlava senza filtro), Giovanni pareva impossibilitato a crescere, immobilizzato dalla oscura sensazione che crescere avrebbe comportato una perdita senza ritorno, una solitudine infinita, fermo in attesa che i genitori potessero tollerare la sua crescita, che una adeguata funzione paterna supportante e separante gli consentisse di districarsi dall’abbraccio simbiotico con la mamma, senza rompersi e senza romperla.

La maturazione dei genitori, il conseguente sviluppo della loro capacità di “lasciarlo andare” gli ha concesso qualche spazio per (ri)affrontare le tematiche edipiche, con quote di angoscia sopportabili e rappresentabili, di fronte all’esplosione della sessualità e dell’aggressività nel suo corpo ormai maturo. L’immagine interna del “primo amore” (materno) è andata differenziandosi dai suoi primi amori adolescenziali (spesso triangolari); il graduale ridimensionamento dei fantasmi di risucchio- espulsione- contagio gli ha consentito di porre le basi di un confronto meno rabbioso con la figura paterna e di impegnarsi nella ricerca della propria identità.

Considerazioni conclusive

In entrambi i casi presentati, ci sembra che sia la tempestività e il “dosaggio” dell’intervento sull’adolescente “in crisi” che il coinvolgimento dei genitori nel progetto terapeutico siano stati elementi determinati per lo sblocco della crisi, la ripresa del processo di crescita, e la conseguente possibilità di affrontare le fondamentali esperienze vitali e maturative che l’adolescenza comporta. Non possiamo ovviamente escludere che Giovanni e Federica (e tanto più Luca) possano avere bisogno in futuro di un trattamento più approfondito, forse anche di una cura psicoanalitica; in questo caso, l’esperienza positiva che hanno alle spalle potrà favorire l’accesso ad un eventuale intervento futuro, se ne avvertiranno la necessità e avranno una sufficiente motivazione per affrontarlo.

Vorremmo sottolineare di nuovo come sia stato importante interpretare l’insorgere della loro sintomatologia (evidentemente severa) come l’espressione di una “crisi” che coinvolgeva tutta la famiglia, da osservare e valutare in tempi lunghi, fornendo l’aiuto necessario senza lasciarsi sedurre e irretire da categorie diagnostiche che non avrebbero potuto non condizionare l’assetto interno dell’analista, prima ancora che le sue decisioni pratiche; e quanto sia stato infine rilevante, sostenere i genitori nel riconoscere e dare significato ai piccoli-grandi mutamenti dei loro figli per poter sviluppare progressivamente fiducia nel futuro e nelle potenzialità del loro “lavoro” di genitori. Questo ha consentito loro di continuare a farsi sostenere nel capire e rivivere il turmoil adolescenziale anche al di là della “crisi” del figlio e scoprirsi così loro stessi un po’ più “persone” oltre che genitori migliori.

Per la coppia degli analisti al lavoro, impegnati su un fronte comune seppure a distanza e da vertici diversi, è fondamentale, oltre al contatto fluido con il proprio sé adolescenziale, il confronto continuo con il proprio modello interno di coppia genitoriale.

L’ampia indipendenza reciproca con cui in genere lavoriamo presuppone una base comune fondata su una lunga esperienza condivisa, oltre che su un rapporto fiduciario basato sulla conoscenza e l’elaborazione delle reciproche differenze. Accade talvolta che gli adolescenti (e i loro genitori) ci utilizzino come un’arma nel loro conflitto, mettendoci a nostra volta in difficoltà, o addirittura in conflitto; questo accade se, per effetto delle risonanze collusive in gioco, anche negli analisti, identificati con i propri interlocutori, prevalgono meccanismi di scissione e proiezione, a scapito di una visione integrata della situazione familiare. Comunicazioni periodiche risultano pertanto indispensabili, non solo per una conoscenza più approfondita delle dinamiche familiari, ma anche per una messa a punto delle difficoltà controtransferali, in una situazione in cui i due analisti, possono fungere l’un l’altro da “terzo polo”, distanziante e differenziante (Mastella e Ruggiero, 1999).

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    sviluppo dell’individuo, Armando, Roma.

Note

1 Breakdown significa essenzialmente indebolimento fisico o mentale, ma anche esser sopraffatti dall’emozione (per es. “scoppiare” in lacrime); ed inoltre: collasso, crollo (della resistenza), interruzione (dei negoziati), rottura (a proposito di auto, motore, macchinario o meccanismo). Breakdown è un termine usato nella letteratura inglese, in particolare dai Laufer, mentre in quella francese ed italiana si usa più spesso il termine di “crisi”, seguito in genere da un aggettivo (adolescenziale, psicotica, ecc.). Le due concezioni non sono sovrapponibili: la seconda, in particolare, appare più generica. Nel linguaggio psichiatrico questi termini vengono spesso usati per esprimere una diagnosi transitoria, per la descrizione di uno scompenso instauratosi in modo acuto, rapido, spesso non preceduto da segni premonitori che l’ambiente sapesse interpretare come segnali di allarme, la cui evoluzione, dopo un periodo di acuzie, può andare dalla “guarigione”, alla ripresa di uno sviluppo “coartato”, limitato, all’instaurarsi di una vera e propria psicosi. Sul piano sintomatologico, l’effetto del breakdown può rendersi evidente subito dopo la pubertà, e in tal caso saranno in primo piano severe manifestazioni di rifiuto delle trasformazioni puberali, ed attacchi al proprio corpo; oppure più tardivamente, nel corso dell’adolescenza vera e propria, se l’organizzazione delle difese ha consentito di trovare qualche risposta, anche provvisoria, agli impulsi edipici, senza che l’esame di realtà sia stato troppo compromesso.

2 “Vulnerabili” sono quegli adolescenti le cui problematiche di sviluppo sono intermedie tra le crisi transitorie “normali” e un arresto o interruzione più grave. In una prospettiva evolutiva, tale vulnerabilità è da vedersi sia come un prodotto dello sviluppo precedente (la vulnerabilità individuale di base, connessa alla struttura della personalità e alla barriera antistimolo) che dei fattori stressanti della fase in corso (gli stress normativi dell’adolescenza), che coagiscono anche in base alla presenza o meno di supporti socio-ambientali facilitanti e protettivi (Laufer, 1984, 1990).

3 Meltzer ed Harris (1986) distinguono, tra le funzioni della famiglia, quelle introiettive (anaboliche), di amore, speranza, pensiero, contenimento del dolore depressivo, da quelle proiettive (cataboliche), di odio, disperazione, confusione, angoscia persecutoria. Il discorso è ripreso da Lussana (1999) che illustra come il tipo di funzionamento della famiglia dipenda da quali e quante delle quattro funzioni introiettive siano effettivamente e genuinamente svolte dai membri della famiglia nei loro ruoli generazionali e nella loro interazione.

4 Lettera: Caro amico (non voglio chiamarti col cognome perché non mi piace chiamare le persone per cognome), i miei genitori vogliono che io mi incontri con te, ma io non me la sento … non so di preciso perché, così ho deciso di scriverti una lettera (ti piace la carta?).

Beh, insomma, io, in pratica, ho troppe preoccupazioni, con tutte le conseguenze, e al posto del cuore mi sembra di avere una grossa pietra. Non dormo di notte, ho troppo preoccupazioni, e se dormo faccio gli incubi, non riesco ad andare a scuola e faccio fatica a uscre di casa. Come se non bastasse ho sempre mal di testa, spesso nausea e mi fanno male le ginocchia. In più se c’è qualche intoppo o qualche novità perdo la bussola e buonanotte al secchio. Per esempio, alla sola idea di andare dallo “psicologo” sono diventata matta. Adesso, a pensarci, fare tanta resistenza per nulla mi sembra assurdo. Ma se solo si profilasse all’orizzonte l’idea di venire da te, penso che si ricomincerebbe da capo. Come ci fossero 2 Federiche in me; ma spesse volte succede che la Federica “coniglio” è forte il doppio. È per questo che preferisco proprio scriverti anziché telefonare o venire. Riesco a parlare di più scrivendo. Strano, eh? E poi ho sempre una paura matta di offendere le persone.

Ciao, ora chiudo, è ora di mangiare. Ciao, la tua Fede.

P.S. Ho scritto di getto, se noti qualche sbaglio o roba del genere non pensare che sono una troglodita, per favore.

5 Da bambino Luca aveva contratto un’epatite; poiché alcuni mesi dopo la guarigione clinica, l’antigene Australia risultava ancora positivo, la mamma – che per tutto il corso della gravidanza era stata tormentata dal terrore di avere un figlio malato – aveva cominciato a pensare di essere “una portatrice sana” e di essere stata lei a contagiare Luca. Era un pensiero così sconvolgente e vergognoso da non poterlo confidare a nessuno, nemmeno al marito. Nonostante altre analisi fossero poi risultate negative, la convinzione di avere un figlio infetto rimase inalterata sullo sfondo, e quando il rapporto tra Luca e la sua ragazza cominciò a consolidarsi si riacutizzò al punto che la signora C. pensava ossessivamente di dover avvertire la ragazza prima che Luca avesse con lei un rapporto sessuale contaminante. Nel tempo, le angosce della signora C. hanno potuto essere parzialmente elaborate, mentre suo marito veniva aiutato a mobilitarsi più attivamente sia nel contenere la moglie che nel tutelare il figlio.

9 pensieri su “Terapia con Adolescenti e Genitori nelle crisi adolescenziali

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